venerdì 27 febbraio 2004

Pausa

Sardegna per una settimana
Vado a riposare e stacco da tutto
Torno splendida e serena, grintosa e giocosa

Hispaniola (9) - Puerto Plata -

10 agosto 2003

Trasferimento per Santiago.
Abbiamo noleggiato un pullman serio. Talmente serio che non ha posto per i bagagli, che infatti carichiamo sui sedili in fondo, passandoli per i finestrini.
Oggi si va in spiaggia!!
Abbiamo organizzato di fermarci a Puerto Plata, ci hanno detto che c'è una spiaggia turistica... davvero non vediamo l'ora di svaccarci sulla sabbia, sorseggiare pinacolada, mangiare al ristorante e nuotare tra i pesci!
E infatti eccoci lì: ombrellone comunitario, due sdraio e subito a prenotare grilled fish e patatine fritte. E meno male che facciamo un po' i turisti una volta! Ne abbiamo un gran bisogno. Almeno IO ne ho bisogno.
Sono stanca e mi sento sola.

In pullman capito seduta accanto ad Antonio. Passiamo il viaggio a chiacchierare. E' una bella persona. Sembra anche conoscersi un po', e conoscere i suoi punti deboli. Ma ci inciampa lo stesso! Mi dà calore. Mi piace.

A Santiago siamo ospiti di One Respe. Che meraviglia di comunità! E' sicuramente l'alloggio migliore visto sin qui. Ci accolgono con calore, quasi troppo, ci disorientano. Ci coinvolgono in tutto, immediatamente. E ci presentano un programma fitto fitto di uscite incontri impegni visite cene riflessioni feste musica itinerari e verifiche ...vogliamo aggiungere qualcosa? ci chiedono. Noi: basiti.
Troppo pieno.
Vogliamo solo rintanarci in tranquillità nelle nostre stanze, tra di noi. Lasciateci stare!!!
Ma quanto siete invasivi??? Ma che volete da noi???
Siamo stanchi!!!!
Voglia di staccare.

giovedì 26 febbraio 2004

Dicono di me

«Sei umana e soprattutto sei donna, non scusartene.»

mercoledì 25 febbraio 2004

Hispaniola (8) - Dajabon -

9 agosto 2003

Mattinata spesa nell'incontro con Padre Regino. Un pazzo carismatico creativo e trascinatore. Poi abbiamo pranzato tutti assieme in una "taverna" (indovinate che si è mangiato?). Prima però siamo riusciti a perderci per Dajabon (che poi sono quattro case), finendo col vagare senza meta sotto un sole implacabile. Meno male che Padre Regino è venuto a recuperarci!

Non abbiamo più voglia di stare attenti a tutto e di ascoltare e partecipare. Meno male che domani la giornata è nostra. Meno male che domani andiamo in spiaggia! A tavola ci divertiamo e diciamo un sacco di cazzate. La Vale riesce a rovesciare l'acqua sul tavolo almeno tre volte. Daniele e Antonio sono in forma e Mazzu è lì a dargli man forte. Grace contratta con una dominicana rischiando di acquistare palle da baseball originali made in china. Sara ride e Lorenzo tiene il muso.

Finalmente torniamo a "casa" (Loma). Giusto il tempo per lavarsi o per trovare la tranquillità necessaria per espletare i propri bisogni corporali (in questi viaggi si fa sempre troppo o troppo poco).
In tabella c'è un incontro tra di noi. Un momento di riflessione, di condivisione. All'inizio nessuno fiata. Poi i soliti a rompere il ghiaccio. Ma l'atmosfera è un po' freddina...
Infine parla Myriam: parla e piange. E tira fuori quello che tutti hanno dentro. Emozioni accartocciate e compresse. Domande, dubbi e fatica. E poi la discussione non si sarebbe fermata più.

Cena veloce e Messa con la comunità locale. Abbiamo preparato un canto. Ci lasciano posto davanti. I due "cura" (preti) concelebrano assieme al sacerdote di Loma. Tutti ci guardano e sorridono. I bambini fanno a gara per starci vicino. Siamo emozionati. Sempre di più. E commossi. Per la gente, per la vita, per l'amore... Ma Dio c'è, allora?

martedì 24 febbraio 2004

...meglio :)

Una domenica ricca di Sapori e Musica. Carezze e Leggerezza. Un lunedì in cui non ho timore di guardarmi a pezzi e inizio a riappiccicarli (fa parte del gioco), aiutata da un difficile e splendido affetto. Un martedì nato nell’entusiasmo di una amica e coronato dal vento nel cielo.

Verbamanent

Il blog è un apostrofo che rende pubblico un diario segreto, per cui si passa dall'io che soffre all'io che s'offre.
(Zu)

lunedì 23 febbraio 2004

Hispaniola (7) - Dajabon/Ouanament -

8 agosto 2003

Notte difficile ma bella quella passata. Qui a Loma de Cabrera dormiamo in letti a castello in un camerone fanciulle che oltre a non avere, come usuale, i vetri alle finestre, non ha nemmeno persiane o tende. Solo una specie di rete zanzariera. Ma tanto zanzare, gechi, cucarache e ragni (enormi neri e carnosi) sono già dentro. Serena ha una paura atavica dei ragni. Le ci deve essere voluto tutto il suo coraggio per affrontare la notte, anche se la abbiamo tutta avvolta con una retina bianca anti-insetti, gentilmente offerta da Marghe la previdente. Mi piace dormire tutte assieme. Le confidenze della Vale che dispensa massaggi e il senso pratico di Elisa, con il bagaglio invaso dalle formiche.

Quanto non mi piacciono le banane cotte! E tanto meno questi surrogati delle patate, filamentosi e stopposi. Mi manca il pane. E pazienza se l'acqua sa di tutto fuorché di acqua.

Oggi abbiamo visto e vissuto talmente tante cose che non posso certo metterle tutte sul foglio. Non riesco nemmeno a tenerle tutte dentro la testa.

Chi c'era capirà, chi non c'era cerchi di ascoltare le emozioni e si accontenti di qualche cenno di colore buttato lì.

Questa mattina il mercato di Dajabon. Il caos africano con la frenesia occidentale. Davvero se non ci fossi passata dentro non ci crederei: non crederei possibile infilare carriole stracolme di ogni tipo di merce in mezzo (anzi: dentro) a un insieme compatto, denso, impermeabile di persone che si muovono, non si sa bene come, e urlano e spingono e si affrettano. Si affrettano tutti avanti e indietro, veloci e instancabili. Gli uomini dietro alle loro carriole sempre a rischio di ribaltarsi e le donne sotto carichi enormi portati con eleganza sulla testa. Avanti e indietro, dentro e fuori la frontiera. Mai fermarsi: sfruttare al massimo le ore di mercato concesse. Fare fruttare al massimo la finestra di scambio tra la "ricca" Repubblica Dominicana e la poverissima Haiti.

C'è chi al ponte della dogana preferisce il fiume, che si guada lungo una linea curva per poi arrampicarsi sull'argine dominicano. Intanto alcune donne lavano i panni in quella stessa acqua marrone.

Passiamo in Haiti. Sembra quasi che di là dal ponte faccia anche più caldo. Qui il mercato è deserto. Meno male che non piove, altrimenti saremmo costretti a nuotare nel fango. Qui manca tutto. Beviamo l'acqua dai sacchettini di plastica, tipo razioni di emergenza dei militari. L'unico mezzo a motore (eccetto qualche motorino) che si vede in giro è uno schoolbus giallo americano, proprio come quelli di Forrest Gump. E infatti è sopra questo bus che ci fanno salire i nostri accompagnatori, che ci vogliono fare vedere la città, il loro difficile lavoro lì, la missione delle suorine colombiane, la scuolita (una goccia d'acqua nel deserto) e la fabbrica occidentale della zona franca. Questi gruppi industriali che con la scusa di portare lavoro nel terzo mondo trovano come sfruttare manodopera a bassissimo costo, non pagare le tasse e liberarsi di scarichi tossici e rifiuti industriali non facilmente smaltibili in patria. Tutto legale. E ragazzi haitiani che fanno il bagno nel fiume inquinato dagli scarichi.

Dopo un'estenuante attesa e contrattazione alla dogana haitiana riusciamo a ripassare il ponte. Rientriamo in RD. E ci prende la strana sensazione di sentirci a casa. E ci accorgiamo allora del senso di estraneità che avevamo in Haiti. E di quanto sia "diverso" il mondo al di là del fiume.

Siamo stanchi e troppo pieni. Abbiamo voglia di pensare a noi e di berci una birra seduti a chiacchierare e ridere al fresco sui gradini dei marciapiedi di Loma.

venerdì 20 febbraio 2004

Sto male. Sto male. Sto male. STO MALE. Sto male. Sto male. L'altra sera ho incontrato una persona. Occhi scuri. Ho sentito certe parole. Ho aperto porte chiuse. Ho visto certe cose. Mie: niente spina dorsale, contatti diffusi, magie puntiformi, vuoto al centro. Basta alcolici e succhi di frutta. Acqua. Una pozza cristallina. Sto male. E i pinguini dell’Antartide mi piacciono sempre di più. Ecco: ancora il cielo rosso. Vuoto. Vuoto al centro. Mi viene voglia di metterci la mano per vedere se è un buco nero che risucchia persino la luce. O se è invece spazio di materia rarefatta che (in tempi cosmici, beninteso) si va ammassando a creare astri. Intanto sto male. Una sofferenza trascendente e sciocca.

cose che cambiano

Ho un cordless nuovo.
Ho fatto fatica a trovare tre numeri da memorizzare.

giovedì 19 febbraio 2004

Hispaniola (6) - Verso Dajabon -

7 agosto 2003

Sveglia all'alba per trasferimento a Dajabon.
Dove giusto l'altra sera c'è stato l'ennesimo massacro di immigranti haitiani. E inquietante è la reazione di tutti coloro ai quali presentiamo il nostro itinerario di viaggio:
- "Qual è la vostra prossima tappa?" "Andiamo a Dajabon, per vedere la frontiera." "Ah. State attenti."
- "Che bell'esperienza che state facendo! E dove andate adesso?" "A Dajabon. E pensiamo di passare in Haiti." "Dajabon? ...fate attenzione!"
Ok. Non possiamo fare a meno di pensare che esagerino. In fondo se un gruppo di giovani europei va a Dajabon significa che non può certo essere un posto pericoloso...

In tre turni di taxi-minibus ci portiamo coi bagagli alla stazione degli autobus di Santo Domingo. Attendiamo tra la folla dei dominicani in partenza, accompagnati da uno schermo che trasmette "shock tv" in inglese, sottotitolato in spagnolo. Apprendo che pompiere si dice bombero. E io che pensavo significasse terrorista...

Prendiamo posto sul pullman. A bordo fa freddo quanto fuori fa caldo. E ovviamente l'aria condizionata non è regolabile. Tutto piuttosto sporco, appiccicoso e scassato. Ma almeno ognuno ha il suo posto e non ci dobbiamo ammassare in cinque su due sedili. Appena parte ecco l'immancabile diffusione della radio al massimo del volume. In questo paese il silenzio non esiste. E tutti qui non è che parlino: urlano. E la radio e la musica si sentono sempre al massimo del volume. AAARGH!

Sale un omone panciuto che accompagna una donna molto più giovane ed un bambinetto. "Maremma! Quanto tempo che non sentivo parlare italiano! Di dov'è che venite voialtri?" E' un fiorentino trapiantatosi nell'entroterra dominicano 6 anni fa. Chiacchiero un po' con lui. Ha una gran voglia di parlare.
Ha messo su una fabbrica di scarpe, nel senso che le fa assemblare qui e poi le commercia all'estero, se ben capisco.
Dice che nella Repubblica Dominicana ci sono diversi italiani che lavorano nel turismo e soprattutto tante ville dei politici corrotti. Dice di apprezzare il nostro turismo alternativo che porta soldi al paese anziché arricchire i tour operator esteri.
Dice che la RD è uno dei centri del narcotraffico, del traffico d'armi e del riciclaggio e pulizia del denaro sporco. Tanto qui non ti chiede niente nessuno. Non capisco se sa quello che dice o se parla per luoghi comuni, boh.
Dice che in ogni caso non c'è poi tanta gente che sta male qui, la povertà estrema non esiste e certo nessuno muore di fame... Penso che faccia finta di non vedere. Penso che abbia quell'atteggiamento naturale di difesa tipico di tutti noi. In fondo nessuno muore di fame qui... Quante volte allontaniamo da noi un problema in questo modo? E' un modo per esorcizzare una situazione che ci crea disagio. In fondo nessuno muore di fame a Santo Domingo... Già.
Mi pare una brava persona, e mi presenta orgoglioso il figlio.
"Ma dove state andando ora?" "Dajabon" "Dajabon?? E che ci andate a fare?? Statevene attenti..." Eddai, ci risiamo.

Il resto delle cinque ore e mezza di viaggio lo trascorro leggendo, riposando, maledicendo la radio al massimo del volume e tentando di conversare con la mia vicina, una dominicana sui 45 anni (ma chi può dirlo?) che mangia in continuazione attingendo (indovinate? riso e pollo!) dalla schiscetta che si è portata.
Mi dice anche che parlo bene lo spagnolo, e da questa affermazione capisco che sta cercando di mostrarsi simpatica ed amichevole.

martedì 17 febbraio 2004

Hispaniola OGGI

Haiti in rivolta.
Golpe? Guerra civile?
Sapete che Aristide (il dittaore di Haiti) è un ex salesiano rieducato dagli americani?

Hispaniola (5) - Santo Domingo

6 agosto 2003

Il motto del giorno è "mas o meno". Che è il motto di tutto questo viaggio. Mas o meno gli orari, mas o meno gli itinerari, mas o meno il cibo, i costi, il tempo, mas o meno la vita in genere.
In pochi altri posti come qui si percepisce quanto il Tempo sia una categoria relativa.

Notte di incubi quella passata, speriamo bene in questa.
Saranno state le tensioni nel gruppo. Litigi diffusi. Tra noi e con i responsabili del posto. Abbiamo tutti bisogno di elaborare un po' le tante emozioni e sollecitazioni ricevute.
E la giornata di oggi, tranquilla, tra conferenza al centro dei gesuiti, visita guidata al Museo dell'Uomo (dove ci ha accolti il direttore in persona, che ci ha pure concesso l'ingresso gratuito) e giro libero nella città coloniale, ha evidentemente lasciato spazio alle tensioni accumulate di liberarsi, dispiegandosi in incomprensioni generalizzate, culminate nella serata organizzata (si fa per dire) andata a monte.

Alla fine solo in tre di noi (Nicoletta, Elisa e io) siamo andate ad incontrare i giovani universitari del gruppo Germinando Ideas, una specie di centro sociale femminista, fortemente anticattolico e "alternativo". Mi sembrava di essere a casa. Solo che qui non è "normale" fare parte di un centro sociale, solo che qui i problemi sono concreti, si tiene la saracinesca semichiusa e alle 23h00 massimo scatta il coprifuoco. L'impressione è che siano a malapena tollerati. Parliamo con loro della situazione femminile (e mi faccio ripetere due volte che uno dei metodi anticoncezionali più diffusi è la sterilizzazione delle donne...-???-), dell'organizzazione dell'università, della vita in Italia e della Chiesa.
Stato e Chiesa qui sono un tutt'uno, un unico meccanismo corrotto, potente, opprimente. Mi viene in mente che giusto oggi pomeriggio, nella città coloniale (il centro storico di Santo Domingo) abbiamo rinunciato alla visita della cattedrale. Era presidiata da soldati dell'esercito che imponevano il pagamento per l'ingresso.

Ma soprattutto chiacchieriamo e scherziamo con loro bevendo coca cola. Che qui, come in tutto il mondo, è più diffusa e costa quasi meno dell'acqua. Possibile che la mondializzazione riuscita della coca cola non dia da pensare?

domenica 15 febbraio 2004

Delirio. Lungo. Scritto ieri.

Scrivo su di un quaderno a spirale accanto agli appunti del mio corso sull’Inferno di Dante del 2001. Non avrei mai pensato di sentire tanto la mancanza del mio pc e del collegamento a internet. Realtà virtuale dalla quale mi faccio accompagnare ormai tutti i giorni. Ma resta virtuale. Appunto. Talvolta mi stupisce concretizzandosi in libri recapitati per posta prioritaria o in una voce al cellulare. In un invito a cena. Pagine web che entrano a far parte del mio quotidiano, su cui investo energie e affettività. Forse è vero che devo starci attenta. O forse no: è solo un altro modo per giocarmi, accanto al mio concreto che sento ancora come chiuso su se stesso, e da questo gioco imparare e rilanciarmi. In fondo chi l’avrebbe detto che io, io!, sarei arrivata a scrivere su internet? Chi avrebbe immaginato che avrei potuto raccontarmi e raccontare al mondo segreti che vivevo come inconfessabili? E chissà che fare esercizio di relazioni virtuali non mi aiuti anche a scoprirmi e giocarmi in quelle reali. Perché poi comunque io resto sola a smazzarmi la mia realtà. Sola.
M. l’ho conosciuto che avevo diciannove anni appena. E ho vissuto con lui per i successivi quattordici. Anni nei quali io ero parte di una coppia. M. era parte di me e della mia famiglia. M. è ancora parte della mia famiglia. Non importa quanti casini e problemi possano presentarsi poi: quando scatta quel passaggio per cui una persona è parte della famiglia, è la tua famiglia, nel bene e nel male, questa cosa non si cambia più. Non è un contratto da strappare. Una causa legale da litigare. Qui in montagna si respira ancora l’aria di noi due. Oggi ho indossato un suo maglione. Mi piaceva indossare i suoi maglioni. Essere riuscita a farlo oggi, e col suo maglione indosso salire su fino al Pradel con slitta al seguito e poi buttarmi giù a tutta velocità (mi sono tanto sentita Calvin con la sua tigre di pezza!), misura la distanza che sono riuscita a metterci. Un passato che rimarrà comunque sempre dentro di me. Fa parte di me. Non rinnego nulla. Ci abbiamo messo ognuno quello che avevamo. Non ha funzionato.
E questo “fallimento” si è nutrito e ha tirato fuori sofferenze antiche e diverse e ci è andato a nozze.
E dovete capire che anche se ricomincio a vivere, anche se scopro interi mondi nuovi e nuova me stessa, lui ci sarà sempre, da qualche parte. Ed è giusto così. E chiunque dovesse mai eventualmente arrivare dopo, dovrà accettarlo. E amarmi anche per questo. E allora non esortatemi a lasciarmi il passato alle spalle. Non aspettatevi che sorrida sempre. Non chiedete razionalità a una persona che ha vissuto e vive soprattutto di cuore. Per come la vedo io è già un miracolo che sia viva. E che abbia voglia di amare. Che poi è la stessa cosa. E se non potete capire la mia ferita, se non potete accettarmi vivere con essa, allora lasciatemi perdere. Che io non posso ignorare quello che sono, nemmeno per dare sollievo a voi.
So che si sente la fatica che faccio. Ma, se possibile, sono serena. Ricordo il peso sul petto che mi impediva il respiro ogni volta che aprivo gli occhi la mattina. Ricordo il nero muro soffocante immenso invalicabile. Ricordo la fatica di alzarmi, di muovermi, di respirare.
La fatica immane di respirare. Quanto è durata.
E non è finita ancora del tutto. No. Ma non è più continua. Ora mi dà tregua. Ora ci sono momenti in cui Sto Bene. E me ne stupisco. Ma ci sono. E me li godo. Appieno. E questo mi permette di desiderare. Non vivo più in costante apnea. Anche se ancora viva, fin troppo, ne è la sensazione. Sono sopravvissuta all’anossia. Ma ne porto le tracce. Macchie nere sulle lastre. Zone d’ombra di tessuti morti. E se non potete accettarmi con i miei chiaroscuri, lasciatemi perdere.
Non sono una ragazzina, anche se per certi versi mi piacerebbe. L’adolescenza che non ho vissuto non la recupero ora. Non si riempiono a posteriori spazi lasciati vuoti. Sono parte di me così, vuoti. Pieni di altro. Si costruisce sopra, tenendone conto. Fanno parte delle mie fondamenta.
Non sono una ragazzina. Sono una donna. Con un bagaglio ricco di vita sulle spalle. Dentro. Sul viso e negli occhi. Una donna.

Hispaniola (4) - Santo Domingo

5 agosto 2003

Ormai non facciamo più caso alle zanzare e alle punture, e poi ci consoliamo guardando le gambe di Myriam, che, dal numero di bozze, sembra abbia il morbillo! Le cucarache (enormi ed antennuti scarafaggi rossobruni) sono diventati amici intimi, e li ospitiamo volentieri in bagno e in camera.

Sono stanchissima, non ce la faccio a scrivere.
Ma ho una assurda paura di dimenticare e allora DEVO mettere giù almeno qualche spunto.
Non VOGLIO dimenticare la "casa" del rifugiato. Questa mattina abbiamo incontrato casualmente, vicino al mercato del Pequeno Haiti, un uomo nero e smunto, che ha riconosciuto il nostro accompagnatore del servizio per i rifugiati. E allora ha insistito perché andassimo da lui, perché vedessimo dove e come vive.

Dalla luce sempre accecante ci infiliamo nell'oscurità di un pertugio tra i muri di due case già impossibili (speriamo che topi non mi passino tra le gambe, non vedo niente, che puzza soffocante, ma quando ne usciamo?? Dai, piantala di fare la schizzinosa, altrimenti te ne stavi a casa tua...) per sbucare dopo questo interminabile breve passaggio in un cortiletto interno tre metri per due evidentemente usato come bagno. Al centro, tra rigagnoli di fogna, una scala precaria e arrugginita, alcuni gradini mancanti o spezzati. Ci si arrampica (in sicuramente minore sicurezza delle scale delle ferrate dolomitiche) fin sul tetto. Qui una baraccopoli di alloggi di lamiera e legno. Ci vivono famiglie intere. Questi sì che rifiutano l'obiettivo della macchina fotografica. Non sorridono. Sono tutti profughi haitiani, anche gente istruita. Ecco, io vivo qui. Sembra quasi una sfida a crederlo, ad accettarlo. Non ci permettono di lavorare, ci perseguitano. Quando piove devo dormire accovacciato in questo angolo perché è l'unico riparato dalla pioggia. Distolgo lo sguardo, non reggo le accuse implicite nei loro occhi. Qui sì, si sente la rabbia.

Col minibus ci spostiamo verso un Batey, enclave haitiane nella Repubblica Dominicana, villaggi chiusi spersi nel mezzo delle piantagioni di canna da zucchero, isolati in mezzo al nulla.
Chilometri di sterrato nel verde delle canne. Natura e colori che ti conquistano nonostante tutto. E' bellissimo.
Ci ritroviamo in africa. Solo che parlano spagnolo. Solita diffidenza iniziale. Ci sentiamo turisti allo zoo, venuti a fotografare povertà e fango. Poi ci danno da mangiare: riso fagioli e pollo, naturalmente. Cucinati come? Bolliti in quale acqua? Ma sono gli stessi polli scheletrici che razzolano lì fuori tra le immondizie? [ho una foto che mostra le nostre facce: qualcuno non mangia, non ce la fa proprio, gli altri si sforzano di ingoiare senza pensarci su. Che poi non era così male e nessuno di noi ne ha risentito.].
Anche qui c'è una scuola, una struttura colorata della CCDH (Centro Culturale Dominico Haitiano), è qui che mangiamo, seduti ai banchetti dei bambini che ci guardano curiosi con gli occhioni spalancati e le treccine colorate.
E poi scatta la musica.
Che vince ogni diffidenza e imbarazzo e annulla le differenze. E si balla tutti assieme: dove non arriva la testa arriva la musica, il cuore, il corpo.
Si balla con adulti e ragazzi e si gioca coi bambini. E' una festa anche per noi. Stiamo bene.
Le giovinette del posto approcciano i nostri "Splendidi" (i belloni del gruppo) con balli erotici e offerte di matrimonio. Mi sposi? Mi porti via con te? Sono brava, ti faccio felice. Voglio mangiare bene, tutti i giorni.

mercoledì 11 febbraio 2004

A domenica

Vado qualche giorno in montagna.
A riposare, a sciare, a rapportarmi coi miei.
Spero almeno di riuscire in una delle tre cose. Probabilmente sciare.

Testa in amore

L’altra sera si parlava del rischio del lasciarsi trasportare dall’istinto della carne al punto da perdere la testa.
Non so. Io non la vivo così.
Il desiderio e la passione e il piacere che ho avuto modo di vivere non negano la testa.
Non stacco la testa per vivere il corpo.
Solo:
La mente tace e si mette in ascolto, in contemplazione dei sensi.
E in silenzio arricchisce il piacere.
Partecipa e gode ogni sapore.
Tutt’una col corpo.

Il dialogo dell'anima

[...]
A- Il freddo s’innalza verso il caldo, i fiumi scalano montagne, il tempo, avanzando, si riavvolge a ritroso. E' una vertigine che accompagna le tue parole. Forse sto scivolando nella follia...
V- Senza essere folle, sei soltanto vicina al suo seme.
A- Mi vedo dentro, come mai prima. E sono triste.
V- Ti aiuterò, è l'inizio della tua felicità.
A- Ma ovunque, sul mio cammino, avverto l’assenza di te.
V- Non cercare me. Trova prima te stessa. Non accontentarti delle emozioni, esse t’ingannano con una brezza notturna. Cerca il codice dei tuoi sentimenti profondi, quelli che aprono il corpo e sciolgono il tuo desiderio, come una matassa di capelli dorati, liberata da una mano leggera. La mente si ritirerà nella sua tana. La maschera cadrà e ciò che si poserà nel tuo cuore sarà autentico. Non avrai più paura di te. Allora, forse, potrai amare me.

[Gardel]

martedì 10 febbraio 2004

Hispaniola (3) - Santo Domingo

4 agosto 2003

Ho qui davanti a me quattro persone, quattro richiedenti asilo, quattro uomini di Haiti fuggiti dal loro paese verso l'unico paese confinante, che non li vuole. Non hanno alcuna speranza di vedere riconosciuto il loro status di rifugiati politici.
E' incredibile stare qui a parlare, tra francese e spagnolo, con queste persone che hanno perso tutto, abbandonato la famiglia e rischiano la vita perché hanno voluto lottare per i loro diritti e per il loro Paese. Hanno una forza irruente. Una statura che ci fa sentire piccoli piccoli. Sono neri come la notte. Mi sento a contatto con una realtà più grande di me. Quattro uomini costretti a mendicare come cani anche per il cibo.

Veloce ed improvvisa sortita in uno dei quartieri popolari di Santo Domingo. Non certo tra i più poveri. Allegro mercato ovunque, tra rigagnoli di acqua sporca e immondizia. Bassura ovunque qui. Non c'è proprio il senso della pulizia. Anche dove si potrebbe. Considerata la temperatura e l'umidità vi lascio immaginare il tanfo. Cani pelle e ossa e traffico caotico, rumoroso e insubordinato. Tanta tanta tanta gente e montagne di scarpe ammassate. Bancarelle con cibi improbabili. Tutti vendono qualcosa, ma chi compra? Non capisco.
"Americani?" "SpikInglish?"
Troppo caldo, troppa gente, troppo rumore.
E guardare sempre per terra, dove metti i piedi: buchi, inghiottitoi, tombini aperti. E i fili della corrente!! Appesi, deviati, derivati, accartocciati, pendenti, scaricano a terra.

Sono già piena ed è solo ora di pranzo.

Visita al quartiere sul fiume, o meglio nel fiume, visto che è costruito nel letto asciutto e sugli argini, e soggetto a periodiche naturali inondazioni. Questo sì uno dei barrios più poveri. Costruito sull'immondizia, nell'immondizia, da persone che sono loro stesse immondizia, senza documenti, mai nate, non esistono. Il fiume di Santo Domingo è la fogna della città. Il colore è giallo-marrone, lo stesso dell'uccello agonizzante con cui giocano alcuni ragazzini tra le montagne di rifiuti dietro le case di lamiera, una sotto l'altra. Sorridono tutti.
"Americani?"
Nel grigio sporco dell'immondizia ecco un'oasi di colore e pulizia: una "scuolita", gestita da volontari aiutati dai gesuiti, appena tollerati dalla chiesa corrotta e connivente col potere locale. Maestre splendide e bambini con quaderno in mano e penna in bocca. E basta. E' pure uscito il sole. Ricominciamo a respirare e ci accorgiamo ora che avevamo smesso.
Andiamo verso l'abitazione della nostra maestra preferita. Non ci sembra vero che viva lì, anche se lo sappiamo. Tanti bambini che si fanno fotografare incuriositi da queste strane persone bianche in un posto da neri. Ma quanti bambini ci sono? Uno non lo scorderò mai. Pancia gonfia ed occhi gonfi spurganti pus bianco che risalta ancora di più sul marrone della sua pelle scura ricoperta di fango. L'unico che non sorride.
I sorrisi dei bambini e l'accoglienza degli adulti. E la sensualità della maestra che balla. E la voglia di vivere. Lascio entrare. Mi affatico, tanto. Ma sono forze che mi lavorano dentro.
Elisa che parla con la bambina del fiume. Daniele che sfida a pallacanestro i ragazzi della collina. Le fogne per strada. La puzza. E ancora i sorrisi e l'accoglienza. E tutto il nostro imbarazzo ad essere lì, bianchi e ricchi e pieni di finti problemi. E loro che ci ringraziano. Ma non lo vedono quanto è assurdo? Ma forse ridono di noi. Forse ci sorridono accogliendoci perché loro sanno viversi la vita che hanno. Perché godono e vivono ogni cosa. E noi non lo sappiamo fare. Sì, lo so: sono le mie proiezioni mentali.

Bello il rientro in forse: non troviamo bus o taxi che ci riportino nella zona civile della città. Alla fine corsa folle ammassati come al solito in quindici in un minibus scassato per otto. Insieme sciolti. In fondo tutti attraversati dallo stesso sentire mentre percorriamo una città che non è più quella di prima.
Soldati superaccessoriati di mitra sopra i tetti. Macchine in vendita ad ogni angolo. Ponte avveniristico e i giochi panamericani.
Grazie di questa opportunità.

lunedì 9 febbraio 2004

Domenica

Che giornata.
Che splendida giornata.
Sono stata bene. Sto bene. STO BENE! Era tanto, tanto tempo, che non stavo bene così, e così a lungo. Mi sono ritrovata ad ascoltare il mio stare bene, a guardarlo. E quasi incredula ad accorgermi che durava.
Sarà stata la firma finalmente messa in calce alla fine del mio matrimonio, sarà stata l'accoglienza splendida e la compagnia sopraffina, saranno state le mani di Enzo, gli occhi di Gialdi e la sua chitarra, i sorrisi e gli sguardi di Campanellino, i racconti gesticolati e sentiti di Michela e i suoi preoccupati travolgenti entusiasmi, l'accoglienza calda e serena di Lulu, la verità di Bea e i suoi abbracci... saranno state tutte queste cose. E la magia della Zone, che mi ha accompagnato nel mio viaggio, in questi mesi.
Sto ancora sorridendo...

domenica 8 febbraio 2004

Hispaniola (2) - Santo Domingo -

3 agosto 2003

Giornata pesante oggi. Almeno non ricordo di avere mai pensato a M. Solo qualche pensiero a persone amiche e care a Milano. E la mail di saluto di Roberto che mi accompagna.
Mi sento un po' sola perché non posso lamentarmi con nessuno (!), chissà che questo non mi serva a smettere di fare i capricci e a incominciare a vivere godendo delle piccole cose...
Questa notte ha piovuto ma l'afa non è diminuita. Il sole picchia implacabile sulle scottature di ieri e si continua a non respirare.
Oggi visita alla comunità afro di Mata los Indios, progenie di ex schiavi, privi di documenti e non riconosciuti da alcuna nazione. Parte della popolazione che non esiste. Nessuna appartenenza e nessun diritto.
Nel tragitto intravediamo gli sconfinati quartieri poveri. E ci immergiamo di botto in un altro mondo. Peccato che oggi io sia così chiusa e dura. Anche la Messa di questa mattina (già, anche qui oggi è domenica) non mi ha toccato. Celebrata in una cappellina tra la vegetazione tropicale. Sapete che in questo paese non si usano i vetri alle finestre? Intere pareti di finestre senza vetri, al limite zanzariere e qualche tenda. Che mondo! Che luce forte, sempre. E poi le nuvole veloci. La biancheria lavata questa mattina è ancora bagnata tale e quale. Umidità altissima. L'abbiamo appesa alle pale del ventilatore (già di per sé instabile...). Sembra arte moderna.
Al villaggio afro è stato molto bello. A parte il caldo, troppo, e a parte le mie spalle doloranti che hanno contribuito a mantenermi dura e chiusa al mondo. Nonostante questa sia una realtà fin troppo invadente e coinvolgente.
Altari colorati di Santeria (sincretismo religioso) e vendita di consulti a 56 pesos (poco più di un euro, carissimo). Il santone è un vecchio saggio fatto di rum e fumo, ha in bocca un sigaro umido e siede in penombra tra i suoi altarini pieni zeppi di immagini e candele e oggetti vari. Parla, biascica ed io non capisco una parola. Lascio 1 peso e la mia accompagnatrice si bagna la mano con acqua benedetta prima di deporlo dove le indica il vecchio saggio strafatto.
Maiali e capre e galline che razzolano e mangiano con cani e bambini. Cenci e liquori casalinghi. Il tutto come in un campeggio. Casette aperte sporche nel fango. Meno male che non piove. Mosche ed insetti.
La nostra accompagnatrice è una grande. Donna laureata, è due anni che ha lasciato tutto e vive lì, ma non è ancora una di loro, e non lo sarà considerata mai, ci dice.
Mangiamo con loro: riso, fagioli e pollo [è il piatto nazionale dominicano, l'**UNICO** piatto dominicano. Non sopporto più nemmeno l'odore di riso fagioli e pollo...] Siamo un po' intimoriti, ma poi via. Mangiabile. Loro si fanno dei piattoni, anche tutti questi bambini comuni in comune.
Poi le danze ci coinvolgono e suoniamo con loro. E tutti siamo oggetto di studio e riprese da parte di una antropologa indiana venuta a studiare le comunità.
Devo smettere di opporre resistenza e devo lasciarmi attraversare da questa umanità rumorosa, diversa e colorata.

venerdì 6 febbraio 2004

Metti tre amiche dentro un bar

Ore 18.15, solito posto: aperitivo fanciulle. Trovo la bionda già col suo inseparabile martini bianco. Aspetta l’arrivo della bruna per raccontarci con dettagli le sue ultime mirabolanti avventure con gli uomini. Confesso di avere pensato di prendere appunti. Risate e confidenze si moltiplicano, tra negroni sbagliati ed M&M’s (grazie Barbie!). Poi l’amica bionda ci saluta e con una mossa di mufliana memoria si dilegua pagando per tutte. Un grande bacio a lei e un grazie all’amica bruna, che ho visto riflessi nei suoi occhi l’entusiasmo e l’eccitazione delle mie confidenze. E volano così due ore fitte fitte di aperitivo fanciulle sotto gli sguardi curiosi e affascinati degli avventori maschili del bar.

Rileggo...

…i miei appunti di viaggio e misuro quanto sono cambiata in questi mesi.

Hispaniola (1) – Santo Domingo –

2 agosto 2003

Scrivo seduta sulla spiaggia bianca. Spiaggia dei dominicani. No turisti. Infatti non c'è nessuno che chiede soldi o che cerca di venderti l'impossibile né che ti offre prestazioni sessuali particolari o di portarti a letto la sua bambina 11ennne.
Accanto a me Wendy, del servizio per i rifugiati, incinta di cinque mesi, e la bimba della sua collega dal nome impronunciabile. Ecco il figlio, Jarife, che esce dall'acqua nella sua maglietta rossa. Qui pare si usi fare il bagno vestiti. E poi rimangono tutti ammassati nella striscia di mare dove si tocca, perché praticamente nessuno sa nuotare. Mi hanno detto che il nuoto è una prerogativa occidentale. Mah.
Prima c'erano le nuvole da pioggia ma ora l'azzurro è limpido ed il sole alto, altissimo. Se lo cerchi non lo trovi perché è proprio proprio in cima al cielo, diritto sopra di te. Il fascino dei tropici.
I bimbi sono sempre belli, ma questi mulatti sono meravigliosi.
Fa caldo, ma è l'umidità della stagione delle piogge che ci fa boccheggiare.
Per ora questo è un Paese sereno allegro e divertente. Tutti sorridono e vivono soft.
Il sesso qui è un canto, un gioco, una danza.
Per lo più ci sono unioni naturali, pochissimi matrimoni. E dei matrimoni solo due su dieci sono celebrati in chiesa. E dire che siamo in uno dei paesi registrati come tra i più cattolici del mondo. La stessa Wendy e la sua collega hanno figli ma non sono sposate, non hanno nemmeno un compagno. Qui è normale, naturale. Qui sono legati alla terra, fortemente legati alla terra ed alla carne.
Penso tanto a Milano e a quello che non può essere. Mi sembra che il dolore per la perdita dell'amicizia con R. sia diventato più sopportabile, probabilmente perché ho accettato l'irreversibilità della cosa. M continua a togliermi il fiato stringendomi lo stomaco, ma anche qui ho accettato che la mia vita è cambiata.
La compagnia è preziosa e questo viaggio provvidenziale e unico.
Chitarra e canzoni sulla spiaggia.

Appunti di viaggio

Da oggi, a rate, accanto alla mia solita assurda produzione, il resoconto giorno per giorno del mio viaggio della scorsa estate.

mercoledì 4 febbraio 2004

Ok

Grazie a tutti.
E appunti di viaggio in prossima pubblicazione.

Dunque. Eccomi di nuovo a vedermela con me stessa. Le bacchette magiche non esistono. Grazie a chi mi ha detto che ce la faccio, così: sulla fiducia, senza neanche conoscermi. E grazie a chi mi ha detto più o meno: “come faccio a dirti che ce la fai? Nemmeno ti conosco. Però io ce l’ho fatta, per cui ti posso dire che ce la si può fare”. A me sembra di combattere contro me stessa. Mi piacerebbe avere la grandezza di rillo (e anche i suoi occhi, già che ci siamo), e l’estroverso calore di zu, e certamente l’autoironia (e la vanagloria) di broono. Per non parlare delle doti che invidio alle donne amiche mie, e a quelle che leggo. E invece eccomi qui. A fare i conti con questa FF un po’ raffazzonata, ammaccata e delusa. Fin troppo densa e seria tra tutti i suoi casini di varia natura. Però ho una gran voglia di ridere. Un po’ come quando seduta per terra in mezzo alla strada su di un osso sacro che urlava di dolore, un dito gonfio e rotto, annientata dall’imbarazzo della impossibile caduta, la prima volta che uscivo coi pattini, con un accompagnatore tanto gentile quanto poco conosciuto, sono scoppiata a ridere. E, a parte la tensione e il dolore, la risata era sincera. La situazione assurda e la risata sincera. Accipicchia se ho voglia di ridere! E lo faccio anche, anche sopra le lacrime che talvolta non riesco a depistare. Mi dispiace per le persone che mi stanno accanto. Che dopo anni di serenità e sorriso sempre e nonostante tutto, si trovano ora ad avere a che fare con un essere triste e impaurito. Mi dispiace, perché lo vedono anche quando sorrido. Ho bisogno di ancora un po’ di tempo. Ma quanto cacchio di tempo ci vuole?? M. non c’è più. Punto. I miei cari amici non hanno trovato altro modo di starmi accanto che voltarmi le spalle. Punto. Peggio per loro. Non mi meritano. E non provino ora a chiedermi come sto. E non provino ora a cercare mie notizie. E peggio per loro, che si sono persi tutte le conquiste che questo anno mi ha portato. Che si perdono la persona meravigliosa che sono ora, più di prima. Già, perché ho una voglia matta, oltre che di ridere, di giocarmi. Di amare. Di vivere. Ora che sono così più consapevole di tutto quello che ho da dare. E di tutto quello che posso ricevere. E …no: non stavo parlando del sesso. Ma perché no, poi? Certo anche quello. Donna come sono ora non mi avete mai vista. E peggio per voi: vi siete chiamati fuori? Restateci. Stai a vedere che finalmente anche io riesco a tirare fuori e a usare la rabbia. Già, perché per arrabbiarsi, per sentirsi feriti e reagire portando a vessillo l’orgoglio ferito, occorre volersi un po’ bene. E allora non importa che la ragione non è mai tutta da una parte sola (anche se alle volte…). E al diavolo chi mi ha perduto. Peggio per loro. E mi hanno fatto del male? Mi hanno fatto un sacco di male? Basta cercare ragioni, basta giustificarli. Mi hanno fatto del male. Punto. E alla fine ci hanno perso solo loro. Io sono pronta a vivere senza. Io sono pronta a vivere sola. E poi quello che porterà la vita lo si accoglierà.

lunedì 2 febbraio 2004

Alti e bassi

Mi sfiniscono.
Sapete, (a volte) non credo di farcela.
Tipo adesso.

Hispaniola (ora andate dappertutto)

La storia con M. si è definitivamente conclusa a luglio scorso. Era già un anno quasi che era crollato il mondo, ma fino ad allora io ci avevo creduto, gli avevo creduto. A luglio scorso ho scoperto come stavano le cose, nonostante lui continuasse a negare e a tenermi in sospeso, chissà perché poi, e ho dolorosamente capito che era un basta definitivo, irrevocabile, inappellabile. Perché a quel punto ero io faticosamente a dirlo. Meno male che erano ormai mesi che mi stavo organizzando una vacanza particolare, un viaggio in un paradiso di mare e spiagge bianche ad incontrare le contraddizioni del nostro mondo e a rileggervi le contraddizioni del mio animo.
Sono stata ad Hispaniola, l’isola che ospita la Repubblica Dominicana ed Haiti. Sono stata al mare. Sono stata tra i poveri. Sono stata tra i giovani alternativi progressisti. Sono stata tra i padri gesuiti. Sono stata nell’inferno delle lamiere tra la spazzatura. Sono stata tra i sorrisi dei bambini. Sono stata nelle cattedrali gestite dall’esercito. Sono stata tra l’ostilità dei rifugiati politici. Sono stata in distese infinite di canna da zucchero. Sono stata fuori da una Istituzione Chiesa connivente e corrotta. Sono stata nel paradiso dei turisti. Sono stata tra gli schiavi delle fabbriche occidentali delle Zone Franche. Sono stata tra gli abitanti delle fogne. Sono stata nel Paese della musica e della danza. Sono stata venti giorni pelle a pelle con sedici giovani folli e ho imparato a conoscerli e a volergli bene.
L’altra sera ci siamo trovati per un incontro pubblico a spiegare quello che abbiamo visto, scoperto e vissuto nel paradiso dei turisti. C’era tanta gente. E i miei giovani compagni di viaggio sono stati davvero bravi. Video e foto proiettate dal computer, domande e testimonianze, critiche e riflessioni. E abbiamo tenuto tutti incollati alla sedia per più di due ore senza interruzioni. Poi siamo andati a bere qualcosa tutti assieme, noi del viaggio. Ognuno con la sua vita dietro, siamo stati bene. E la mia personalità ombra, che paradossalmente è la mia personalità più solare, si è aggiudicata la serata.
Ora avrei voglia di raccontare del mio viaggio. Di buttare nel blog i miei appunti della scorsa estate. Se a qualcuno interessa magari lo faccio. O magari lo faccio comunque. Non so ancora.