domenica 15 febbraio 2004

Delirio. Lungo. Scritto ieri.

Scrivo su di un quaderno a spirale accanto agli appunti del mio corso sull’Inferno di Dante del 2001. Non avrei mai pensato di sentire tanto la mancanza del mio pc e del collegamento a internet. Realtà virtuale dalla quale mi faccio accompagnare ormai tutti i giorni. Ma resta virtuale. Appunto. Talvolta mi stupisce concretizzandosi in libri recapitati per posta prioritaria o in una voce al cellulare. In un invito a cena. Pagine web che entrano a far parte del mio quotidiano, su cui investo energie e affettività. Forse è vero che devo starci attenta. O forse no: è solo un altro modo per giocarmi, accanto al mio concreto che sento ancora come chiuso su se stesso, e da questo gioco imparare e rilanciarmi. In fondo chi l’avrebbe detto che io, io!, sarei arrivata a scrivere su internet? Chi avrebbe immaginato che avrei potuto raccontarmi e raccontare al mondo segreti che vivevo come inconfessabili? E chissà che fare esercizio di relazioni virtuali non mi aiuti anche a scoprirmi e giocarmi in quelle reali. Perché poi comunque io resto sola a smazzarmi la mia realtà. Sola.
M. l’ho conosciuto che avevo diciannove anni appena. E ho vissuto con lui per i successivi quattordici. Anni nei quali io ero parte di una coppia. M. era parte di me e della mia famiglia. M. è ancora parte della mia famiglia. Non importa quanti casini e problemi possano presentarsi poi: quando scatta quel passaggio per cui una persona è parte della famiglia, è la tua famiglia, nel bene e nel male, questa cosa non si cambia più. Non è un contratto da strappare. Una causa legale da litigare. Qui in montagna si respira ancora l’aria di noi due. Oggi ho indossato un suo maglione. Mi piaceva indossare i suoi maglioni. Essere riuscita a farlo oggi, e col suo maglione indosso salire su fino al Pradel con slitta al seguito e poi buttarmi giù a tutta velocità (mi sono tanto sentita Calvin con la sua tigre di pezza!), misura la distanza che sono riuscita a metterci. Un passato che rimarrà comunque sempre dentro di me. Fa parte di me. Non rinnego nulla. Ci abbiamo messo ognuno quello che avevamo. Non ha funzionato.
E questo “fallimento” si è nutrito e ha tirato fuori sofferenze antiche e diverse e ci è andato a nozze.
E dovete capire che anche se ricomincio a vivere, anche se scopro interi mondi nuovi e nuova me stessa, lui ci sarà sempre, da qualche parte. Ed è giusto così. E chiunque dovesse mai eventualmente arrivare dopo, dovrà accettarlo. E amarmi anche per questo. E allora non esortatemi a lasciarmi il passato alle spalle. Non aspettatevi che sorrida sempre. Non chiedete razionalità a una persona che ha vissuto e vive soprattutto di cuore. Per come la vedo io è già un miracolo che sia viva. E che abbia voglia di amare. Che poi è la stessa cosa. E se non potete capire la mia ferita, se non potete accettarmi vivere con essa, allora lasciatemi perdere. Che io non posso ignorare quello che sono, nemmeno per dare sollievo a voi.
So che si sente la fatica che faccio. Ma, se possibile, sono serena. Ricordo il peso sul petto che mi impediva il respiro ogni volta che aprivo gli occhi la mattina. Ricordo il nero muro soffocante immenso invalicabile. Ricordo la fatica di alzarmi, di muovermi, di respirare.
La fatica immane di respirare. Quanto è durata.
E non è finita ancora del tutto. No. Ma non è più continua. Ora mi dà tregua. Ora ci sono momenti in cui Sto Bene. E me ne stupisco. Ma ci sono. E me li godo. Appieno. E questo mi permette di desiderare. Non vivo più in costante apnea. Anche se ancora viva, fin troppo, ne è la sensazione. Sono sopravvissuta all’anossia. Ma ne porto le tracce. Macchie nere sulle lastre. Zone d’ombra di tessuti morti. E se non potete accettarmi con i miei chiaroscuri, lasciatemi perdere.
Non sono una ragazzina, anche se per certi versi mi piacerebbe. L’adolescenza che non ho vissuto non la recupero ora. Non si riempiono a posteriori spazi lasciati vuoti. Sono parte di me così, vuoti. Pieni di altro. Si costruisce sopra, tenendone conto. Fanno parte delle mie fondamenta.
Non sono una ragazzina. Sono una donna. Con un bagaglio ricco di vita sulle spalle. Dentro. Sul viso e negli occhi. Una donna.