5 agosto 2003
Ormai non facciamo più caso alle zanzare e alle punture, e poi ci consoliamo guardando le gambe di Myriam, che, dal numero di bozze, sembra abbia il morbillo! Le cucarache (enormi ed antennuti scarafaggi rossobruni) sono diventati amici intimi, e li ospitiamo volentieri in bagno e in camera.
Sono stanchissima, non ce la faccio a scrivere.
Ma ho una assurda paura di dimenticare e allora DEVO mettere giù almeno qualche spunto.
Non VOGLIO dimenticare la "casa" del rifugiato. Questa mattina abbiamo incontrato casualmente, vicino al mercato del Pequeno Haiti, un uomo nero e smunto, che ha riconosciuto il nostro accompagnatore del servizio per i rifugiati. E allora ha insistito perché andassimo da lui, perché vedessimo dove e come vive.
Dalla luce sempre accecante ci infiliamo nell'oscurità di un pertugio tra i muri di due case già impossibili (speriamo che topi non mi passino tra le gambe, non vedo niente, che puzza soffocante, ma quando ne usciamo?? Dai, piantala di fare la schizzinosa, altrimenti te ne stavi a casa tua...) per sbucare dopo questo interminabile breve passaggio in un cortiletto interno tre metri per due evidentemente usato come bagno. Al centro, tra rigagnoli di fogna, una scala precaria e arrugginita, alcuni gradini mancanti o spezzati. Ci si arrampica (in sicuramente minore sicurezza delle scale delle ferrate dolomitiche) fin sul tetto. Qui una baraccopoli di alloggi di lamiera e legno. Ci vivono famiglie intere. Questi sì che rifiutano l'obiettivo della macchina fotografica. Non sorridono. Sono tutti profughi haitiani, anche gente istruita. Ecco, io vivo qui. Sembra quasi una sfida a crederlo, ad accettarlo. Non ci permettono di lavorare, ci perseguitano. Quando piove devo dormire accovacciato in questo angolo perché è l'unico riparato dalla pioggia. Distolgo lo sguardo, non reggo le accuse implicite nei loro occhi. Qui sì, si sente la rabbia.
Col minibus ci spostiamo verso un Batey, enclave haitiane nella Repubblica Dominicana, villaggi chiusi spersi nel mezzo delle piantagioni di canna da zucchero, isolati in mezzo al nulla.
Chilometri di sterrato nel verde delle canne. Natura e colori che ti conquistano nonostante tutto. E' bellissimo.
Ci ritroviamo in africa. Solo che parlano spagnolo. Solita diffidenza iniziale. Ci sentiamo turisti allo zoo, venuti a fotografare povertà e fango. Poi ci danno da mangiare: riso fagioli e pollo, naturalmente. Cucinati come? Bolliti in quale acqua? Ma sono gli stessi polli scheletrici che razzolano lì fuori tra le immondizie? [ho una foto che mostra le nostre facce: qualcuno non mangia, non ce la fa proprio, gli altri si sforzano di ingoiare senza pensarci su. Che poi non era così male e nessuno di noi ne ha risentito.].
Anche qui c'è una scuola, una struttura colorata della CCDH (Centro Culturale Dominico Haitiano), è qui che mangiamo, seduti ai banchetti dei bambini che ci guardano curiosi con gli occhioni spalancati e le treccine colorate.
E poi scatta la musica.
Che vince ogni diffidenza e imbarazzo e annulla le differenze. E si balla tutti assieme: dove non arriva la testa arriva la musica, il cuore, il corpo.
Si balla con adulti e ragazzi e si gioca coi bambini. E' una festa anche per noi. Stiamo bene.
Le giovinette del posto approcciano i nostri "Splendidi" (i belloni del gruppo) con balli erotici e offerte di matrimonio. Mi sposi? Mi porti via con te? Sono brava, ti faccio felice. Voglio mangiare bene, tutti i giorni.
domenica 15 febbraio 2004
Hispaniola (4) - Santo Domingo
Pubblicato da narsil alle 15:09
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