giovedì 18 marzo 2004

Hispaniola (14) - La Haina

15 agosto 2003

Ripartiamo da Santiago per Santo Domingo. Sergio viene con noi, assieme a Edgar che approfitta del passaggio per tornare a casa, a La Haina, una cittadina nei pressi della capitale. Ed è qui che ci portano. Era il porto e il polo industriale di Santo Domingo, prima che le industrie fossero dimesse e i commerci si spegnessero. Rimangono le strutture delle fabbriche, coi loro cancelli e muri grigi in questo mondo colorato, e le torri e le cisterne di una quasi-ex raffineria di petrolio, ora più una bomba a orologeria che una cattedrale nel deserto. Sta proprio accanto al percorso, ostruito da dighe di rifiuti, del fiume-fogna della città. Ogni tanto le autorità mandano qualcuno a fare lavoro di pulizia, per garantire il passaggio dell'"acqua" ma è evidente che sono passati anni dall'ultima volta. Accanto al letto del fiume-fogna i resti dei binari su cui correvano i vagoni che collegavano il porto alla città.

Appena arrivati, in ritardo rispetto al programma, Sergio e Edgar ci portano nel cortile di una ex fabbrica, affittato (solo il cortile) a carissimo prezzo giusto per l'occasione, dove ci aspettano tutti i bambini della scuolita che One Respe gestisce qui. Tanti, tantissimi bambini che ci aspettano impazienti e vestiti a festa. Ci fanno un'accoglienza strepitosa che ci coinvolge immediatamente. Hanno preparato per noi una festa: cantano e ballano, ci raccontano del loro paese e ci chiedono del nostro.
Viene a piovere, come sa fare solo ai tropici, una marea d'acqua grossa e pesante tutta insieme che in pochi minuti allaga tutto. Ci ripariamo come possibile sotto una tettoia mentre i bambini ci cantano gli inni nazionali dominicano e haitiano. E poi tocca a noi. Ed eccoci a cantare a squarciagola "Fratelli d'Italia", emozionati e commossi, fieri di essere italiani come soltanto in terre diverse e straniere ci si sente ("...Siam pronti alla morte, l'Italia chiamò!").
Mi tiro su i pantaloni per evitare che si inzuppino camminando nei 15 centimetri d'acqua che ricoprono il terreno, i bambini più grandicelli tengono in braccio quelli più piccoli, per non lasciarli seduti o sdraiati nel fango. Uno mi adocchia e approfitta per mettermi in grembo la piccolina che porta, evidentemente dopo un po' troppo pesante per uno scricciolo di sì e no sette anni. Mi ritrovo con questa bimbetta di forse un anno che mi abbraccia, si appoggia, e si addormenta con la guancia sulla mia spalla.
E poi torna il sole ed il caldo è ancora più umido. Si gioca e si mangia riso e pollo tutti assieme.

E poi via a visitare il barrio, che è poi tutta la città.
Edgar ci vive.
Noi pensavamo di avere finito, di essere sulla via del ritorno, di tornare a Santo Domingo, riposare un paio di giorni e volare in Europa. Non ci aspettavamo ancora visite nei barrios. E non ci aspettavamo di vedere ancora di peggio di ciò che avevamo già incontrato.

Riporto qui fedelmente le impressioni a caldo che ho annotato:

Qui vivono nella fogna, vera e propria, che ogni tanto allaga tutto, esonda e porta via l'intero quartiere. Compresa la scuolita (minuscola e sporca). Un'insegnante ci racconta che devono stare attente ai bambini più piccoli perché appena piove un po' di più il livello dell'"acqua" supera quello della loro statura e rischiano di affogare. Qualche bimbo ci segue nel giro per il quartiere. Ci fa un po' senso camminare tra loro. Tutti ci guardano. Passiamo la fogna. Mettiamo i piedi nella fogna. Passiamo sulle rotaie sospese sul terreno franato come su di un'asse di equilibrio. Fa un caldo infernale. Casette di latta peggio che altiforni. Meno male che la puzza dopo un po' non si sente più. La bambina dice di essere felice, nel suo vestitino rosa di festa in onore dei bianchi stranieri e strani che sono venuti qui per lei.
Accarezzi, abbracci, sollevi e stringi bambini che ti cercano e ti accolgono e che nessuno mai guarda. Non hanno nemmeno da mangiare. Un maiale in agonia sdraiato nella fogna legato a una corda. Cagnolini ovunque, così come i bambini. Tra mille pericoli e malattie. Soli con sé stessi e a sé stessi. E' tutto troppo per me.
Sporcizia ovunque. Mi sento sporca, sporchissima. Temo i pidocchi, i parassiti, il liquame in cui camminiamo, le manine sporche dei bambini che ti toccano, i piedini melmosi che ti si arrampicano addosso. Ti chiedono da bere perché tu hai osato attingere dalla tua bottiglietta d'acqua di riserva. Gli regali la bottiglia. Soprattutto perché non osi bere di nuovo da lì dopo che ci hanno bevuto loro...
Siamo sporchi, sporchissimi, sudati e sporchi nei vestiti appiccicati indosso. Sporchi fuori e dentro. Una sporcizia di povertà assoluta che senti addosso e dentro. Non se ne va via lavando. Non si toglie con il sapone.
E' quella sporcizia che da fuori si scava una strada dentro, che mette in luce la sporcizia che c'è nella tua anima e che tu ti scopri dentro come marchio indelebile nella nostra vita comoda e pulita, pulitissima.