martedì 20 gennaio 2004

Sfogo doposcuola

Oggi i ragazzi a scuola mi hanno toccata dentro. Ragazzi o bambini? Fate voi, hanno 10 anni, vanno per gli undici. E probabilmente di sesso ne sanno più di me. Due col padre in galera e i fratelli che girano in bande, uno tolto alla famiglia dal tribunale, uno rom e lasciamo stare gli altri. Il “mio” sarebbe quello allontanato dalla famiglia, ma poi tanto me li becco tutti. E mettiamo una supplente in una quinta così. Sono arrivata che c’era il finimondo. E mi sono portata via i tre dell’apocalisse. Ludoteca, fanciulli. E tra una macchinina ed un trenino elettrico si sono messi a giocare con le Barbie e i BigJim, tanto per insegnarmi qualche variante sessuale a cui non avevo ancora pensato. Peccato che per loro il sesso sia solo violento. E faccia solo male. E quando rientriamo in classe e ricominciano le schermaglie coi compagni, e qualcuno osa dire una sola parola su una madre, allora il “mio” “bambino” dà fuori di matto. E ancora una volta non si riesce a fermarlo, e ancora una volta mi trovo avvinghiata ad una iena maleodorante violenta e sfuggente, carica di rabbia e dolore, che esige solo scaricarla in pugni e sberle e calci al malcapitato di turno. E la paura dei compagni, e le maestre inchiodate dai vaffanculo. E la contengo, la mia belva. Ci provo. E respiro la sua rabbia e il suo dolore. Oggi mi ha chiesto come stavo. Gli ho risposto la verità, che è l’unica cosa che accetta. Non benissimo. Perché? Perché ho dei problemi da affrontare e sono stanca. Quali problemi? Tutti hanno i loro problemi. Già, mi dice, e per la prima volta mi racconta un po’. E poi mi spiega che certe cose non si risolvono più, che è troppo tardi. E poi mi chiede di dimenticare quello che mi ha raccontato. Certo, io dimentico tutto. Anche perché i fatti sono poco importanti. Ritengo in me però il dolore e la rabbia, quella stessa che poi ti esplode in classe coi compagni, quella stessa che fatico a contenere, che mi fa male alle braccia, che mi prende a gomitate nello stomaco, che quando ti immobilizzo a fatica e ti chiedo di guardarmi negli occhi tu mi sputi in faccia con lo sguardo e mi chiedi cosa farne, allora. Allora? Ti sto guardando, come volevi, e adesso? Che hai da dirmi tu? Che cazzo hai da dirmi? Niente. Però ti guardo. E ti ascolto. E ti accolgo. E tu senti che non rifiuto il tuo dolore e la tua rabbia. E tu senti che la sento. E’ l’unica cosa che posso fare per te. E’ l’unica cosa che ti possa servire adesso. E aveva ragione il mio ex amico che un pomeriggio mi disse che avrei imparato tanto dal mio buio, che solo chi lo attraversa poi sa attingervi per mettersi in comunicazione con l’altro che soffre. Io ero all’inizio della mia personalissima umilissima opera al nero. E non sapevo cosa mi aspettava. Per certi versi lui lo vedeva molto più chiaramente di me. E mi disse che mi sarei trovata sola, che nessuno avrebbe potuto dirmi nulla, che sarebbe stata più dura di quanto immaginassi, che alla fine ne avrei tratto un tesoro. Perché solo chi ha vissuto il nero, chi lo ha affrontato in sé senza sfuggirgli, sa poi entrare in risonanza con quello degli altri, accettandolo, non negandolo per accantonare assieme a quelle degli altri le proprie insicurezze e ombre. E adesso sono qui, con la mia vita in mano, ancora tanta strada da fare, ma non ho più paura di guardarmi dentro. Ho voglia di muovere le mani, di lavorarci. Sono qui, davanti ai “miei” ragazzi, a ridere con loro, a giocare. A sorridere a una vita che comunque sempre mi sorride.